Il gioco del postmoderno

° di Beniamino Sidoti, pubblicato su The Clouds, marzo 2007

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La parola gioco compare spesso negli studi sul postmoderno. Il gioco è l’opposto della “grande narrazione” di epoca moderna e premoderna; il gioco incorpora e mischia, rielabora e distribuisce frammenti da comporre. Se il testo è un riferimento chiuso e stabile, il gioco propone una creazione di spazi, un attraversamento.

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Il gioco aveva già goduto di una certa importanza negli esperimenti delle avanguardie artistiche del Novecento. Gli artisti postmoderni amplificheranno ancora questa dimensione, privilegiando alcuni giochi: la citazione, la parodia, il rimando; le strutture e le costruzioni; le grandi simulazioni e le strutture regolate; il travestimento; la partecipazione e il coinvolgimento dello spettatore.

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Gli studiosi dei mutamenti sociali contrappongono nella società postmoderna il gioco al progetto finalizzato, così come la combinazione si oppone alla selezione. Il mondo postmoderno è fatto di frammenti in cerca di combinazione, di identità provvisorie e multiple che si combinano a seconda delle necessità, di comunità provvisorie e liquide, di rimandi continui piuttosto che di simboli stabili. Il gioco, in questo contesto è allora sinonimo di leggerezza (anche di superficialità). È un monito a non prendere troppo sul serio quello che facciamo, a preferire ai piani gli schemi aperti, non indirizzati. Il gioco è un modo per vivere un mondo incerto, provvisorio, “liquido”, che rifiuta ogni tradizione.

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Il gioco soddisfa, come metafora incarnata, molte delle caratteristiche del postmoderno. Come dice Caillois è un’attività libera, separata, incerta, improduttiva, regolata e fittizia. Quasi come il nostro mondo. Quello che ci sta intorno può essere più facilmente spiegato in termini di gioco anziché come storia. Non abbiamo più una storia cui far riferimento (la nostra famiglia e il suo prestigio, la nostra carriera e i suoi scatti, la storia dell’arte e la progressione degli stili, l’inarrestabile progresso delle scienze o della storia, il destino della classe operaia, eccetera), ma molti giochi cui partecipare o meno.

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Il gioco ha offerto esempi concreti di visioni profetiche del postmoderno: i giochi di simulazione hanno accompagnato la cibernetica e aiutato architetti e urbanisti. I libri-gioco hanno anticipato e divulgato il concetto di ipertesto prima di internet. Come molti altri aspetti della vita quotidiana, delle arti e delle relazioni sociali, il gioco cambia con il mondo; in qualche caso può anticipare dei cambiamenti, in altri offrire delle solide sacche di resistenza. Più spesso è espressione della società che lo produce.sedia-schermo3

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Brian Sutton-Smith nel suo Paese dei balocchi (1986), ha studiato l’uso dei giocattoli. Per Sutton-Smith il giocattolo incorpora sempre più una cultura di possesso e di esclusione in cui l’apparente abbondanza di doni fatti ai bambini delle società occidentali corrisponde, in termini antropologici, a una richiesta di scambio, a un contro-dono per gli adulti: “la solitudine è il dono che il bambino fa ai genitori”.

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Assistiamo così al trionfo di una delle categorie di Caillois, quella della “separatezza”. Fortunate e postmoderne sono anche quelle del fittizio e del regolato: in un mondo diviso e frammentato in tante piccole scene vigono regole specifiche di comportamento, con ruoli specifici. Gli altri tre aggettivi (improduttivo, libero, incerto) appaiono invece perdenti: così come sono comparsi giochi che traducono meglio la società attuale, altri sono scomparsi. I giochi nuovi soddisfano nuove esigenze, quelli scomparsi non sono più praticati perché meno “necessari”, troppo dissonanti rispetto al mondo. 

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Il gioco diventa moderno quando si fa “prodotto” industriale, replicabile in serie e commerciabile in massa. Il gioco diventa postmoderno quando soddisfa le caratteristiche di una nuova società, più frammentata, rapida, inconsistente, leggera. I giochi postmoderni cedono alla frammentazione dei tempi e degli spazi, non hanno più come proprio simbolo la “scatola” ma l’ubiquità, la possibilità di entrare nelle pause e negli interstizi del quotidiano: sono giochi “interinali”, a tempo determinato. Non creano spazi autonomi, sono luogo di incontro occasionale e provvisorio, e non spazio dedicato al tempo libero.orsa2gioca

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Il gioco indica anche, nota Bencivenga in Giocare per forza, in molte lingue un incastro non perfetto, un qualcosa che “fa gioco” come una vite che balla, uno spazio interstiziale libero fra le parti che si legano. “Lo spazio libero tra le parti della nostra vita e del nostro ambiente è quel che ci permette l’invenzione, l’avventura, il rischio. È lo spazio del possibile: siccome è libero, può essere occupato da tante cose diverse. È lo spazio della scelta: niente gli si adatta a puntino (altrimenti sarebbe già pieno), dunque saremo noi a decidere che cosa metterci. Ed è lo spazio in cui cercare noi stessi: la nostra differenza, la nostra originalità, il percorso esistenziale che ci ha fatto diversi da ogni altro”.

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Bencivenga affronta i costumi per bambini, in particolare un mantello di plastica rossa da Superman. Nella tradizione del gioco, ogni tenda, ogni federa, ogni pezzo di stoffa può diventare un mantello; nelle corsie dei supermercati e dei negozi di giocattoli, nel mondo del gioco per forza, invece il mantello da Supereroe c’è, in plastica ininfiammabile e sterile. Il mantello preconfezionato offre al bambino un “incastro perfetto” con l’immaginario, completando l’ultimo passaggio (il merchandising) di un’industria culturale onnipresente. Quello che viene a mancare, o viene ridotto, è lo spazio di una creazione autonoma e originale. Nel gioco postmoderno anche il mondo delle idee si adegua alla riproduzione in serie.

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Il postmoderno si caratterizza per una continua frammentazione (della società, dei saperi, dei tempi): i primi a cadere sono i giochi che chiedono tempi dilatati, spazi aperti e ampi. I giochi di strada e da cortile, i giochi di banda e da ragazzi; ma anche i giochi di carte fatti per passare il tempo, segno di bar e circoli, ormai limitati a una stagione della vita. Sono irriducibili al mondo postmoderno, ai suoi valori e alla sua estetica i giochi di salto (come la campana o la cavallina), i giochi di corsa e di acchiappino, i giochi di movimento senza vincitori certi, non trasformabili in pratica sportiva. Diventano più complessi e meno liberi anche i giochi di fantasia, incastrati in un mantello di plastica. FigureInfanzia

Ogni gioco, potenzialmente, è sottoposto al rischio di sparire di colpo. È la stessa idea di tradizione a essere messa concretamente in crisi da una società frammentata, a risultare inadeguata nel mondo postmoderno.

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Trionfa invece il divertimento, l’imperativo della comunicazione televisiva, che diventa comando di vita. La tv promuove giochi scemi a danno di quelli più complessi. Eppure i giochi “intelligenti” sopravvivono, nascono e si diffondono malgrado o in alternativa alla società dello spettacolo.

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Erosi i confini fra tempo libero e tempo di lavoro, il cittadino postmoderno vive sempre in una dimensione che ha sempre qualcosa di ludico, e al tempo stesso rischia di essere privato del senso più profondo del gioco.

Il gioco era un tempo rubato per sé, quando ancora era possibile rubare del tempo o disporre di tempo. I giochi che funzionano meglio ai nostri tempi, sono giochi “parassiti”, che sfruttano al meglio le nostre disponibilità di tempo e ciò che abbiamo già a disposizione: giochi per il cellulare e solitari per computer, passatempi frammentati e istantanei, giochi liofilizzati che crescono sfruttando ciò che già c’è intorno. Sono giochi pienamente postmoderni perché fanno sempre riferimento a qualcos’altro che non è lì, ricchi di citazioni e ammiccamenti, che usano come materiale di gioco qualcosa che nel gioco non è: giochi di quiz, pupazzi ispirati alla tv e serie tv ispirate alle bambole. Mantelli rossi da supereroi. Parchi giochi pronti e sicuri, programmati e lucidi. Giochi gonfiabili, trasportabili e pronti in un attimo. GameBoy portatili, Tamagotchi, bambole con il volto di un personaggio famoso, o al limite con il proprio volto.

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E al tempo stesso ci sono giochi nuovi e imprevedibili: che riaprono i margini per costruirci spazi, che si fanno complessi per nuovo pensiero. Che sono malgrado tutto liberi, incerti, improduttivi. Che permettono di costruire comunità. Un esempio è dato dai MMORPG, complessi giochi online che coinvolgono milioni di persone nella costruzione di una realtà virtuale.

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NOTA DELL’AUTORE: Questo articolo è un’anticipazione e una sintesi, pensata e mirata per The Clouds, di un saggio che ho scritto per Storia, teoria e pratica del gioco in Occidente, un libro curato da Franco Cambi e Gianfranco Staccioli. Sidoti2Tratta di gioco, e di come questo stia cambiando nell’epoca che stiamo vivendo. In qualche modo, ci siamo resi conto parlandone con Giorgio, parla anche di teatro: del teatro che c’è e di quello che si va costruendo. Sono debitore dello spunto iniziale a Gianfranco Staccioli, e di una bella e proficua chiacchierata a Annalisa Sacchi. Li ringrazio entrambi: eventuali errori e omissioni sono invece interamente colpa mia.

 

NOTA DELL’EDITORE: l’articolo orginale prevedeva un punto zero qui riportato come nota dell’autore e un punto 14 sul teatro, qui non riportato per la versione web. Si ringraziano autore e rivista.

 

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