Psicologi a scuola (per aiutare gli insegnanti)

° di Marco Vinicio Masoni

I ragazzi nati e formati in questi ultimi trenta anni chiedono qualcosa di inaudito rispetto al passato. Sapete che oggi scorre nei discorsi comuni una parola, che, diffusissima, sembra non abbia avuto storia, sembra che ci sia sempre stata, ma la parola è giovane: “Motivazione”. Solo trenta anni fa era termine utilizzato raramente. Se ne sentiva parlare pochissimo nelle scuole. I ragazzi di oggi vogliono essere motivati. La gerarchia non è più o è sempre meno visibile, il ruolo non ci protegge più, non basta dire in classe “sono l’insegnante quindi mi dovete ascoltare” (espressione efficace decenni fa), perché gli studenti sembra rispondano (lo fanno anche col silenzio), “fatti ascoltare, fai in modo che sia interessante ascoltarti…” Questa, è la motivazione. Far che la ragazza e il ragazzo davanti a te in classe ti dicano: professore, ci insegni. E’ un mondo nuovo per la scuola, una grande sfida. La relazione motivante è oggi il nuovo grande compito.

Ma la scuola ha avuto un colpo di fortuna. Nel 1990, la politica di allora, miope e ottusa come sempre, figlia solo dei voti e quindi del senso comune, per contrastare la droga inventa i C.I.C., i Centri di Informazione e Consulenza. (…) Ebbene, in più di venti anni di sportello, mio e dei miei colleghi, non ci è mai capitato che qualche studente o studentessa ci venissero a dire : io sono un tossico. Ovviamente non vengono a dirlo lì.

Lo strumento nasce quindi come errore dei nostri politici, ma fu proprio questo il colpo di fortuna. La scuola, grazie ai CIC, allo sportello scolastico, ha scoperto l’importanza dell’ascolto. Ha scoperto che gli studenti hanno bisogno di ascolto.psico

Ho fatto una ricerca ai tempi nei quali si stava conducendo un importante progetto per la Direzione Centrale dell’Orientamento della regione Friuli Venezia Giulia: si trattava di lavorare con duecento scuole, un grosso campione, e in un questionario con domande aperte, alla domanda “qual è per te l’insegnante ideale?” i ragazzi risposero in altissima percentuale in questo modo: l’insegnante ideale 1) deve conoscere la sua materia (il che la dice lunga sul fatto che esistono evidentemente insegnanti che non la conoscono, e i ragazzi se ne accorgono), 2) deve essere imparziale (modalità troppo spesso ignorata) 3) deve essere un insegnante col quale posso anche parlare dei miei problemi, non solo della sua materia.

Questa terza richiesta appare inaudita se andiamo al tempo della mia adolescenza. Allora era davvero inimmaginabile poter parlare col prof dei propri problemi. Esigenza nuova espressa anche in altro modo, in classe i ragazzi dicono vorrei che in classe la professoressa quando fa l’appello e nomina me alzasse la testa e mi cercasse con gli occhi (un amico dirigente mi ricorda che questa frase l’ha detta per primo Daniel Pennac).

I ragazzi di oggi vogliono un rapporto vis à vis con l’insegnante. Vogliono un rapporto personale con l’insegnante, un rapporto che passi anche attraverso il non verbale. Sta scomparendo la possibilità di entrare in rapporto con l’insegnante solo in quanto gruppo, in quanto membro del gruppo.

Circa duecento anni fa la Repubblica Cisalpina emise una circolare per le scuole di allora, dove si raccomandava che le classi avessero non più di cento ragazzi per classe. Il che vuol dire che cento per classe era ritenuto ragionevole. Com’era possibile? Gerarchie ferree, regole ferree, poteri leggibili senza sfumature o ombre; chiarezza assoluta: io comando tu taci e obbedisci.

In questi trent’anni tutto questo si è disfatto o fortemente indebolito, i ragazzi vivono dignità mai vissute prima, scoprono un habeas corpus impensabile prima, e accade che l’insegnante scopre che non basta ordinare i saperi, comandarli. Occorre motivare i ragazzi e la motivazione passa dalla relazione.

Si scopre quindi, grazie a quel colpo di fortuna, che i ragazzi vogliono essere “ascoltati”, e qui passiamo ( ma torneremo alla scuola) alla autonomia dello psicologo. masoni

(…)

In questi anni, osservando ciò che accade nelle scuole ho visto prendere forma due grandi filoni, al di la delle formazioni di riferimento, che chiamerei il filone autonomo e il filone succube.

Iniziamo dal filone succube: osservate una scuola, con il suo centro d’ascolto, e nella stanza dello psicologo troverete lui, il nostro collega, da solo, o con pochissimi ragazzi al giorno e tanto, tanto tempo libero. I ragazzi non ci vanno volentieri, in generale vi vengono inviati, vi vengono mandati. Non ci vogliono proprio andare. Perché? Perché quello psicologo si è messo in testa di fare lo psicologo come forse lo farebbe in altri ambiti, fa diagnosi, giudica, riprende, a volte fa la morale, propina ramanzine tipo dovresti impegnarti un po di piu”, o fa l’invio, in neuropsichiatria, dichiarando implicitamente Non ci posso fare nulla”. Non fa lo psicologo della scuola, non ha capito che gli si richiede l’ascolto. Questa è la psicologia non autonoma, succube, è l’immondezzaio della scuola (i ragazzi non son immondizia, ma l’insegnante che non riesce con loro e invia allo psicologo affinché vengano “curati” se ne libera come se lo fossero). L’insegnante, non riuscendo a capire cosa fare con un ragazzo di oggi, per il quale le gerarchia appaiono invisibili, non avendo gli strumenti per relazionarsi con lui, si difende dicendo in modo sia implicito che, a volte, esplicito, lui è disturbato”, quindi te lo mando, dato che mi hai dato l’impressione, tu psicologo, di essere qui per curare i disturbati. Quell’insegnate non dice allo psicologo: vediamoci, vorrei che mi dessi una mano, per capire come fare con quel ragazzino, perché i miei strumenti non mi bastano. Allo psicologo non viene in mente di dire: troviamoci, vediamo insieme quali problemi si incontrano nella relazione con quel ragazzino, vediamo se posso aiutarti con le mie competenze.

Mancanza di autonomia quindi, e dello psicologo, e dell’insegnante.

Che fanno invece gli altri, l’altro filone, quelli che, osserviamoli, hanno lunghe liste d’attesa. Il ragazzo vuole andarci. Ci sono liste di attesa di uno, a volte due mesi, c’è la fila per andarci a parlare. Come mai? Cosa fanno in generale quegli psicologi? Ascoltano. Ascoltare vuol dire: sto attento a te, ho un rapporto con te accettante, non mi spaventano le cose che dici, non mi stupisci, non mi sconvolgi, sento come stai, capisco cosa provi, mi accorgo delle tue emozioni. Quello psicologo è come se dicesse , ti posso ascoltare e sento cose normali. Chiunque di voi sa che questi messaggi se accompagnati da un non verbale che li rende autentici e credibili è fortemente capace di consentire cambiamenti.

Questa modalità quindi aiuta lo studente e lo fa star bene, ma, soprattutto, questo tipo di psicologo nella scuola svolge un compito importante.

Ripeto, la scuola ha scoperto che occorre ascoltare i ragazzi, a volte non sa ancora farlo, certo è una sorta di attività nuova, in questo lo psicologo può aiutare la scuola, in questo senso va inteso come orecchio intelligente della scuola, una sorta di espressione della scuola che cerca un aiuto per fare meglio ciò che dovrebbe fare. Non stiamo parlando quindi della psicologia che entra sgomitando nella scuola con le sue convinzioni a volte iatrogene, ma di un delicato offrirsi alla scuola. La scuola ascolta tramite noi psicologi, siamo il suo orecchio provvisorio, e noi insegniamo alla scuola ad ascoltare. Ascolto dei ragazzi e formazione degli insegnanti, ecco le due grandi attività che segnano la nostra dignità culturale e la nostra autonomia e una scuola che chiede di apprendere perché lo decide, restando scuola e non diventando una ASL, ecco la sua autonomia.

La scuola ci chiede in modo autonomo come si fa , ci dice insegnami”, non dice: insegnami a fare lo psicologo, ma insegnami a insegnare accostando alla mia conoscenza disciplinare anche quella relazionale. E quando la scuola avrà imparato potrà svolgere anche in modo autonomo questo compito, perché non si tratta di un compito terapeutico, non si tratta di fare test e diagnosi, si tratta di insegnare. Solo la scuola può farlo. Qualcuno ha già accennato oggi al fatto che si stanno formando centri d’ascolto condotti da insegnanti. Evviva, è questo il nostro scopo, come quello dei vecchi curati di campagna che dicevano ; il mio lavoro consiste nel far in modo che non debbano chiamarmi.

So che la cosa spaventa: come? ci stai dicendo che dobbiamo fare in modo che non si abbia più bisogno di noi psicologi? Esattamente, e aggiungo, è in questo modo che il vostro lavoro aumenterà, è in questo modo che le scuole e vi richiameranno a fare formazione (anche se di questi tempi non sarà cosi facile). Certo che poi possiamo correre il pericolo di imbatterci in insegnanti che giocano al piccolo Freud, ma questa è carenza di formazione, non insostenibilità di una giusta idea.immagine

* Estratto dall’intervento di Marco Vinicio Masoni al convegno Prendersi cura del ben… essere nella comunità scolastica”, Padova, 23 novembre 2013 – si ringrazia l’autore per la pubblicazione su http://www.400colpi.net

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