Il bambino democratico

di Andrea Lanza*

La pedagogia, da subito, dalla fine del Settecento, è animata da quella tensione insita nel voler costituire un legame tra il vecchio e il nuovo in una società che vuole diventare altro da ciò che era. Un secolo più tardi, le nuove pedagogie, quelle per esempio di Montessori e di Piaget, devono confrontarsi alla stessa sfida divenuta ancor più difficile. A metà Novecento, Hannah Arendt mostra quanto la crisi dell’educazione sia intimamente legata alla crisi dell’autorità e della tradizione:

“Il vero problema dell’educazione sta nell’estrema difficoltà (nonostante si faccia un gran parlare di nuovo conservatorismo) di realizzare quel minimo di conservazione, quella situazione conservatrice assolutamente indispensabile per ‘educare’ i giovani”.

A partire dagli anni Ottanta, la crisi dell’autorità e il rifiuto del “vecchio” si sono ulteriormente approfonditi; basti pensare che perfino la destra, con il neoliberalismo, si è votata al cambiamento continuo. GauchetLe riflessioni sulla pedagogia di Marcel Gauchet nascono proprio dal bisogno di comprendere come si formano i nuovi individui in una società in cui è sempre più radicata e radicale l’illusione che gli individui si diano naturalmente. La diagnosi da cui prendono le mosse i suoi studi è netta: «sono le condizioni stesse di possibilità dell’azione educativa a essere oggi rimesse in discussione dalla trasformazione delle nostre società». Nell’estratto che segue ci si soffermerà su tre aspetti interconnessi: la trasformazione della funzione sociale della famiglia, la difficoltà d’insegnare in una società che delegittima l’idea stessa di autorità, la progressiva riduzione della conoscenza costitutiva del soggetto a dei sapere funzionali.

La trasformazione della funzione sociale della famiglia

Il ruolo del bambino nella formazione della famiglia è cambiato: i tre decenni trascorsi hanno segnato l’entrata in un’epoca in cui il rapporto costitutivo del nucleo familiare non è più il rapporto coniugale, ma l’arrivo dei figli e la trasformazione della coppia in genitori: «metter su famiglia» significa oggi non formare una coppia stabile ma, appunto, desiderare e avere dei figli. Il desiderio di un figlio, ormai tendenzialmente distinto da quello erotico, non può non avere profonde conseguenze nella ridefinizione della famiglia, dei genitori e del bambino che d’ora in avanti dovrà confrontarsi con un desiderio che lo precede. Il bambino è divenuto il centro della famiglia, e questo in molteplici e correlati aspetti: dal fatto che il bambino costituisce una sorta di ideale del sé (la proverbiale innocenza del bimbo acquista nuovi significati e nuove forze divenendo l’individuo che non ha ancora proceduto ad alcuna rimozione, che è autenticamente se stesso) al fatto che il genitore ricerchi il riconoscimento del figlio (con gli effetti che ciò comporta nel processo educativo). brunomastroianni-blogspot

Questo spostamento dell’asse costitutivo della famiglia si accompagna anche a una trasformazione più profonda che riguarda lo statuto sociale della famiglia: nella prima fase del dispiegamento della società democratica, tra Ottocento e Novecento breve, la famiglia nucleare affettiva si costituisce come «un privato in vista del pubblico», come uno spazio privato in funzione dell’uscita dei suoi membri nello spazio pubblico come un luogo di costruzione delle individualità concrete, sessuate, dipendenti e bisognose di affetto, e insieme luogo di preparazione alla vita pubblica.

Negli ultimi tre decenni, la complessa e contraddittoria ridefinizione e confusione tra pubblico e privato tende a fare della famiglia una sorta di bastione a difesa del privato di fronte a un pubblico avvertito come invadente e pericoloso. Da una parte, muta in profondità il modo di crescere del bambino e, soprattutto, dell’adolescente: dal conflitto familiare come crescita, si tende a passare alla ricerca nella famiglia di un rassicurante rifugio. Dall’altra parte, la famiglia non risponde più alla funzione di socializzazione del bambino, se si definisce la socializzazione come «il processo attraverso cui s’impara a guardarsi come uno tra gli altri» ma delega tale funzione alla scuola.

La scuola in mancanza d’autorità

L’istituzione scolastica diviene allora il primo luogo di socializzazione, di apprendimento delle norme sociali. Nel difficile compito a cavallo fra privato e pubblico, fra la domanda del bambino di essere considerato nella sua particolarità e il carattere impersonale dell’istituzione, la scuola rimane isolata. Non solo, in questo stesso lavoro, la scuola si trova costantemente delegittimata da una società in cui impera «l’ ideale dell’autenticità» e, nel quotidiano, i suoi insegnanti sono esposti a ogni genere di accuse da parte di famiglie preoccupate che il diritto del bambino a essere ciò che ‘naturalmente’ è sia in ogni istante garantito. Si tratta, con nuovi elementi e conformazioni, di una tensione che anima da molto tempo la stessa istituzione scolastica: dopo una prima fase di scolarizzazione caratterizzata da una socializzazione coercitiva, che perdurerà lungamente nelle pratiche, a partire dall’inizio del Novecento, le nuove pedagogie hanno posto l’individualità del bambino al centro del proprio progetto educativo. Oggi, le aporie di un’educazione che pone al centro il bambino che deve formare si stagliano sempre più chiaramente e drammaticamente. Allargando lo sguardo, questa tensione non è che il riflesso del vero problema politico attuale: la difficoltà di «concepire e tirare le conseguenze del carattere sociale dell’individualismo». Proprio ponendosi questo problema politico, in una prospettiva molto diversa ma convergente, Riccardo Massa sostiene che «la scuola deve essere presidiata nel suo carattere di separatezza e di artificialità».

La società democratica fonda la propria esistenza e la propria capacità di riprodursi e rinnovarsi su istituzioni che producono socialmente individui e che quindi sono intrinsecamente aporetiche. L’istituzione che si rapporta agli individui ne riconosce l’uguaglianza e ne classifica le differenze, in altri termini ne riduce sistematicamente le peculiarità ma permette loro di richiedere il proprio riconoscimento e di concepirsi come portatori di eguali diritti. Le istituzioni della società democratica sono così produttrici di ordine e, insieme, di insoddisfazione, per gli utenti come per gli operatori. La scuola è forse l’esempio più emblematico proprio perché, con un’efficace formula di Gauchet, in essa si deve avere «l’esercizio dialettico di un’impersonalità in vista di una personalizzazione».

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Il re mentre spiega a suo figlio i diritti dell’uomo

L’aporia delle istituzioni democratiche non è facilmente scioglibile. Se si legge, per esempio, alla luce di questa tesi, una proposta di descolarizzazione quale quella di Ivan lllich, un elemento fondamentale appare sottovalutato: l’uomo democratico, l’individuo, con i suoi diritti e la sua astratta autonomia, soggetto di ogni progetto di emancipazione, è prodotto proprio dalle istituzioni democratiche e non ultima dalla scuola. Non casualmente, avanzando la propria proposta di «reti di possibilità» e «reti didattiche», equiparate in più di un passo ad altri servizi pubblici e fondate sul desiderio e bisogno individuale di imparare, Illich non distingue fra adulti e bambini. Non solo si ignora la peculiarità dell’educazione del bambino, ma si elude il ruolo di socializzazione svolto dalla scuola, considerandolo come parte del «programma occulto» dell’istituzione. Tale elusione si ritrova, oggi, sotto forme completamente diverse, in progetti che veicolano una sostanziale privatizzazione (culturale prima che economica) della scuola in nome della differenziazione (religiosa, culturale, comunitaria ecc.) della «offerta formativa». Questa elusione, infine, mi sembra essere implicita ma evidente nell’incapacità diffusa di porre il problema educativo come problema politico.

Oggi, «se il maestro, il professore, l’insegnante non hanno più autorità in classe, è perché in realtà altre autorità di rango superiore, nella società, delegittimano la loro autorità, la fanno apparire, involontariamente, derisoria e senza oggetto». Il problema dell’autorità dell’educatore, e più in generale dell’istituzione educativa, deve essere allora ripensato e affrontato fuori dalle mura della scuola, come questione politica, come oggetto cioè di un confronto diffuso e di una scelta della società in grado di determinare le forme e le condizioni in cui l’educazione può ritrovare la propria legittimazione sociale. La riappropriazione critica del fatto dell’autorità e la rifondazione di una legittimità sociale delle istituzioni educative sono alla base anche di un’educazione al rapporto con l’autorità, attraverso cui si acquisiscono gli strumenti per discutere l’autorità da cui si dipende e da cui ci si distacca.

Ripensare il senso dei saperi

Ottima esemplificazione di questo è il problema dello statuto dei saperi trasmessi, se si va oltre alla scontata constatazione della mancanza progressiva, nei giovani, di interesse per lo studio. Anche in questo caso, Gauchet situa il problema all’interno di un contesto storico-sociale di approfondimento del processo di individualizzazione e quindi di un riconoscimento anche del bambino come individuo a tutti gli effetti. Non solo questo riconoscimento mette in discussione la legittimità dell’autorità ma, in modo meno visibile ma non meno potente, influisce direttamente sul rapporto che il bambino istituisce con i saperi. L’essere riconosciuto in quanto individuo nel senso pieno del termine rende più difficile per il bambino il percorso stesso attraverso cui si costruisce come individuo; l’acquisizione dei mezzi che gli permettono di agire come individuo, i saperi, tende a perdere di senso. Da mezzi di costituzione del sé, i saperi si trasformano in strumenti per agire, utili quindi unicamente nel momento in cui questi si dimostrano indispensabili all’azione. La restituzione di senso per i bambini non può allora avvenire senza che l’ intera società cambi il proprio rapporto con la conoscenza. Solo la messa in discussione del rapporto utilitaristico al sapere a favore di un riconoscimento del valore individuale, sociale e civico delle conoscenze può comunicare al bambino la necessità dei saperi come mezzi di costruzione della propria individualità. Anche in questo caso, la soluzione non può in alcun modo ricorrere nostalgicamente a formule che non prendano atto della detradizionalizzazione propria delle società democratiche: il passato, e i saperi che questo ci lascia, stanno perdendo tutta la loro aura, e nella società che si volge verso il futuro e in cui la legittimità è data dal futuro verso cui si aspira, il valore del sapere sembra potersi fondare unicamente sulla sua utilità, al punto che perfino la comunità accademica non appare in grado di pensare dei criteri di autovalutazione culturalmente al ternativi a quelli della produttività. A risentirne sono innanzitutto, evidentemente, i saperi letterari e storico-sociali, ma anche, inesorabilmente, quelli scientifici.


* Andrea Lanza, estratto rivisto da: Il bambino democratico. La filosofia politica dell’educazione, “La Società degli individui”, 2012, n° 43, pp. 170-185.

Bibliografia

M.-C. Blais, M. Gauchet, D. Ottavi, Transmettre, apprendre, Stock, Paris 2014 (uscito dopo la pubblicazione dell’articolo da cui è tratto il presente estratto).

M.-C. Blais, M. Gauchet, D. Ottavi, Conditions de l’éducation, Stock, Paris 2008.

M.-C. Blais, M. Gauchet, D. Ottavi, Pour une philosophie politique de l’éducation. Six questions d’aujourd’hui, Bayard, Paris 2002.

M. Gauchet, Il figlio del desiderio. Una rivoluzione antropologica, Vita&Pensiero, Milano 2010 (riunisce per il lettore italiano due articoli usciti su “Le Débat” e un breve saggio inedito).

H. Arendt, The crisis of education (1961), trad. it. La crisi dell’istruzione, in Tra passato e futuro, Garzanti, Milano 1999.

R. Massa, Cambiare la scuola. Educare o istruire?, Laterza, Roma-Bari 1997.

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